Eccovi la mia “seduta” con Matteo Gabbianelli, cantante e autore dei Kutso, band del panorama indipendente che si sta facendo notare molto: un’attività live continua e crescente interesse da parte dei media e di artisti blasonati (hanno recentemente aperto il concerto di Caparezza a Miami). L’ho incontrato prima del concerto che i Kutso hanno tenuto al Glitter Cafè di Viterbo, evento organizzato da Club your Live e Mvm concerti.
Ho ascoltato l’ultimo album (Decadendo su un Materasso Sporco) dove si parla del declino sociale della nostra epoca; mentre tutto cade, quali sono i tuoi punti di riferimento?
In realtà il tema del disco è molto intimista. È un decadimento individuale; è vero, ci sono canzoni in cui il marcio che sta dentro si rivolge fuori, come Questa Società; ma i miei testi sono sfoghi emotivi; Decadendo su un Materasso Sporco è il percorso di una persona depressa ma non totalmente disperata che mentre si lancia a corpo morto verso il fondo della sua interiorità corrotta, poco prima di sfracellarsi, viene salvato dalla vita attraverso il piacere delle piccole cose; nelle piccole cose ci sono anche le azioni negative che possono far male al prossimo ma che sono innegabilmente umane. La metafora è questa: il materasso sporco ti salva ma ti macchia in maniera indelebile; la vita, quando ti dà un’altra possibilità, ti lascia il segno.
I testi?
I testi sono i miei sfoghi; non scrivo quando sono felice; esorcizzo su carta la negatività. La metto nelle canzoni. La musica, in contrasto con le parole, è molto solare, maggiore, gioiosa. Il gioco è proprio questo: un ossimoro tra testi definitivi e disfattisti e una musica piena di vita e con aspetti esilaranti.
Come vivi la tua posizione di musicista?
Io sono un eterno ambizioso/insoddisfatto/frustrato; mi rendo conto che sta andando sempre meglio; tuttavia siamo grandi, sono 20 anni che suoniamo, io ne ho quasi 35, e non possiamo ancora dire che questo è totalmente il nostro lavoro.
Riesci a vivere di musica?
Cinque persone lavorano nei Kutso; diciamo che adesso è l’equivalente di un buon part time.
Cosa ti deprime della vita da musicista?
La lentezza con cui si muovono certi meccanismi; gli eventi sono in mano al caso; puoi spingere, credere in quello che fai, ed è giusto che tu faccia così, ma poi è un momento irrazionale che decide le cose.
Il problema è che, quando sei ambizioso, sarai sempre insoddisfatto.
Aspettative?
Crescere ancora. Abbiamo già il disco pronto. Oltre a suonare ovunque e non fermarci mai stiamo cercando una rete di rapporti che ci faccia sviluppare ancora di più.
Qualche anticipazione dei prossimi testi?
Il prossimo album continuerà questo filone, anche perché già avevamo 30/40 canzoni pronte quando abbiamo iniziato Decadendo. Il suono sarà più duro, incisivo, rock.
Quali bisogni compensi facendo musica? Catarsi, narcisismo, espressione di sé?
Un po’ tutte queste cose; di base sono una persona molto sanguigna e impulsiva; per vivere nella società mi sono molto censurato; ma certe emozioni aggressive verso di me e gli altri ce le ho dentro, le metto su carta per placarle ma anche per riderci su, per dire “va be’, è assurdo quello che stavo pensando…”
Razionalizzo creando qualcosa di artistico.
Che emozioni dai al tuo pubblico? Che legame crei?
Non lo so. Probabilmente c’è una corrispondenza di contenuti, ma ancora non ho chiare le emozioni che provano gli altri rispetto alla nostra musica, conosco le mie. Quando sto su un palco mi sfogo, un po’ come quando da bambini si salta sul letto facendo finta di suonare la chitarra.
Infanzia e adolescenza: che ruolo hanno in quello che scrivi in quello che sei adesso?
Quando ero bambino ero un misto di estro, simpatia e tristezza latente; queste caratteristiche le ho ancora: se mi metto a pensare sto male, se agisco sto bene. La mia vita è perennemente delineata da questo contrasto.
Quando ero adolescente, volevo essere un batterista; vedevo sull’autobus i metallari e i grungettoni, mi piacevano e sognavo: mi immaginavo di prendere l’autobus con i capelli lunghi, la camicia di flanella e le bacchette che spuntavano dallo zaino.
Qual è la canzone più emotivamente significativa della tua vita?
In Bloom dei Nirvana: il sunto di una sofferenza forte in una musica eroicamente gioiosa. Un sorriso amaro che cerchiamo di ricreare nella nostra musica.
Come definiresti la tua personalità?
Sono nevrotico, teso, ansioso (dormo sempre di meno), permaloso, istintivo, deciso, determinato, Vaffanculo. Dottore, qual è la diagnosi (ride)?
Io penso che tu sia molto consapevole delle tue caratteristiche e le stai canalizzando bene nelle musica…no?
Se mi chiedi…stai bene? A me pare di no. Sono sempre più nervoso, incasinato. Ti svegli la notte perché devi fare qualcosa, poi la fai e non dormi uguale. Io non sto bene.
Il mondo della musica è una lotta; è tutto precario; la carriera dei Kutso deve avanzare. Dobbiamo almeno arrivare allo stipendio di un operaio.
Io ho una megalomania e una strafottenza che non mi fanno soccombere all’ansia: faccio quello che voglio o almeno tento di farlo; ma se ciò è funzionale all’arte non sempre lo è alla vita.
Per la vita serve star bene non scrivere canzoni. Sono scelte.
Vedo in quest’ottica anche l’eventuale decisione di mettere su famiglia; non credo alla coesistenza di due passioni totalizzanti, non si può essere un buon padre e una rockstar allo stesso tempo, perché la musica, quando non è un semplice hobby, è importante quanto un figlio. Vivere con un genitore, che anche amandoti immensamente, ti assegna lo stesso valore che hanno le sue canzoni e quindi se stesso genera mancanze e scompensi importanti.
Grazie a Matteo,
Dr. Romeo Lippi