John Lennon è stato un personaggio cardine non solo della musica ma anche della società del ‘900.
Ma dietro la maschera del Beatle spaccone o quella del profeta della pace si celava una persona fragile, insicura, tormentata.
Le origini del male
Il padre di John si allontanò da lui in tenera età: John visse questa distanza come un abbandono. Venne presto assegnato alle amorevoli ma severe cure della zia materna, pur vedendo regolarmente la madre Julia. Lo zio George (figura maschile che sostituiva il padre) morì quando John aveva 11 anni. La madre Julia fu vittima di un incidente stradale quando lui era adolescente (17 anni).
La sua vita fu quindi segnata da PERDITE; lasciando un’indelebile traccia in lui.
Aiuto!
John era già famoso quando scrisse Help, canzone che dietro il ritmo allegro celava una vera e propria richiesta d’aiuto.
Non ho più tanta fiducia in me Spesso mi sento così insicuro Aiutami a rimettermi in piedi Per favore, non potresti aiutarmi?
Come dichiarò inseguito “Ero grasso e depresso e stavo invocando aiuto. Per davvero.”
Hai già visto il mio video su come auto-aiutarsi? Eccolo.
Dalla droga alla spiritualità
Il bisogno di comprendere, di sapere, di AVERE RISPOSTE, prese varie forme: all’inizio nell’esplorazione della marijuana, poi nelle visioni indotte da LSD, fino ai viaggi in India e la devozione ai santoni dello spirito.
Psicoterapia: la scoperta di sé
L’eroina aveva fatto la comparsa nella vita di Lennon.
Yoko Ono passò un libro a John, era di uno psicoterapeuta californiano Arthur Janov: parlava della sua nuova forma di cura chiamata Primal Therapy. John se ne innamorò subito e cominciò a seguire un percorso.
Il terapeuta trovò in John
una spaventosa mancanza di tenerezza
John stesso faceva progressi, e dichiarò
Sei costretto a renderti conto del tuo dolore […] la maggior parte della gente scarica il proprio dolore attraverso Dio, la masturbazione o qualche sogno di successo… Io ho iniziato a guardare in faccia la realtà anziché andare sempre alla ricerca di una specie di Paradiso.
Da questo percorso nacquero le canzoni del suo primo LP da solista, intriso di tematiche psicologiche.
Yoko Ono: amore o dipendenza?
John non poté proseguire il percorso poiché il suo terapista erano tornato in USA e lui aveva problemi col visto; lo stesso terapeuta pensava che John avesse ancora molta strada da fare, era ancora un “bambino spaventato“.
John allora si rifugiò ancora di più nel suo rapporto di FUSIONE con Yoko Ono: compagna non solo di vita ma ormai inscindibile partner lavorativo che compariva insieme a lui in tutte le produzioni e in tutte le interviste.
A lungo si è scritto se questa relazione fu l’origine della fine dei Beatles; ma una cosa è certa: John visse un legame che non aveva mai sentito; talmente era alta la PAURA di perderla che egli era affetto da patologica GELOSIA, passavano 24 ore al giorno insieme; quando Yoko forzò una separazione, “spedendolo” a Los Angeles, lui visse di nuovo l’ABBANDONO, ricadendo nell’alcol e invocandola tutte le sere al telefono di farlo tornare da LEI.
A voi la considerazione se fu amore o dipendenza…o entrambi.
Eccovi la mia “seduta” con Matteo Gabbianelli, cantante e autore dei Kutso, band del panorama indipendente che si sta facendo notare molto: un’attività live continua e crescente interesse da parte dei media e di artisti blasonati (hanno recentemente aperto il concerto di Caparezza a Miami). L’ho incontrato prima del concerto che i Kutso hanno tenuto al Glitter Cafè di Viterbo, evento organizzato da Club your Live e Mvm concerti.
Ho ascoltato l’ultimo album (Decadendo su un Materasso Sporco) dove si parla del declino sociale della nostra epoca; mentre tutto cade, quali sono i tuoi punti di riferimento?
In realtà il tema del disco è molto intimista. È un decadimento individuale; è vero, ci sono canzoni in cui il marcio che sta dentro si rivolge fuori, come Questa Società; ma i miei testi sono sfoghi emotivi; Decadendo su un Materasso Sporco è il percorso di una persona depressa ma non totalmente disperata che mentre si lancia a corpo morto verso il fondo della sua interiorità corrotta, poco prima di sfracellarsi, viene salvato dalla vita attraverso il piacere delle piccole cose; nelle piccole cose ci sono anche le azioni negative che possono far male al prossimo ma che sono innegabilmente umane. La metafora è questa: il materasso sporco ti salva ma ti macchia in maniera indelebile; la vita, quando ti dà un’altra possibilità, ti lascia il segno.
I testi?
I testi sono i miei sfoghi; non scrivo quando sono felice; esorcizzo su carta la negatività. La metto nelle canzoni. La musica, in contrasto con le parole, è molto solare, maggiore, gioiosa. Il gioco è proprio questo: un ossimoro tra testi definitivi e disfattisti e una musica piena di vita e con aspetti esilaranti.
Come vivi la tua posizione di musicista?
Io sono un eterno ambizioso/insoddisfatto/frustrato; mi rendo conto che sta andando sempre meglio; tuttavia siamo grandi, sono 20 anni che suoniamo, io ne ho quasi 35, e non possiamo ancora dire che questo è totalmente il nostro lavoro.
Riesci a vivere di musica?
Cinque persone lavorano nei Kutso; diciamo che adesso è l’equivalente di un buon part time.
Cosa ti deprime della vita da musicista?
La lentezza con cui si muovono certi meccanismi; gli eventi sono in mano al caso; puoi spingere, credere in quello che fai, ed è giusto che tu faccia così, ma poi è un momento irrazionale che decide le cose.
Il problema è che, quando sei ambizioso, sarai sempre insoddisfatto.
Aspettative?
Crescere ancora. Abbiamo già il disco pronto. Oltre a suonare ovunque e non fermarci mai stiamo cercando una rete di rapporti che ci faccia sviluppare ancora di più.
Qualche anticipazione dei prossimi testi?
Il prossimo album continuerà questo filone, anche perché già avevamo 30/40 canzoni pronte quando abbiamo iniziato Decadendo. Il suono sarà più duro, incisivo, rock.
Quali bisogni compensi facendo musica? Catarsi, narcisismo, espressione di sé?
Un po’ tutte queste cose; di base sono una persona molto sanguigna e impulsiva; per vivere nella società mi sono molto censurato; ma certe emozioni aggressive verso di me e gli altri ce le ho dentro, le metto su carta per placarle ma anche per riderci su, per dire “va be’, è assurdo quello che stavo pensando…”
Razionalizzo creando qualcosa di artistico.
Che emozioni dai al tuo pubblico? Che legame crei?
Non lo so. Probabilmente c’è una corrispondenza di contenuti, ma ancora non ho chiare le emozioni che provano gli altri rispetto alla nostra musica, conosco le mie. Quando sto su un palco mi sfogo, un po’ come quando da bambini si salta sul letto facendo finta di suonare la chitarra.
Infanzia e adolescenza: che ruolo hanno in quello che scrivi in quello che sei adesso?
Quando ero bambino ero un misto di estro, simpatia e tristezza latente; queste caratteristiche le ho ancora: se mi metto a pensare sto male, se agisco sto bene. La mia vita è perennemente delineata da questo contrasto.
Quando ero adolescente, volevo essere un batterista; vedevo sull’autobus i metallari e i grungettoni, mi piacevano e sognavo: mi immaginavo di prendere l’autobus con i capelli lunghi, la camicia di flanella e le bacchette che spuntavano dallo zaino.
Qual è la canzone più emotivamente significativa della tua vita?
In Bloom dei Nirvana:il sunto di una sofferenza forte in una musica eroicamente gioiosa. Un sorriso amaro che cerchiamo di ricreare nella nostra musica.
Come definiresti la tua personalità?
Sono nevrotico, teso, ansioso (dormo sempre di meno), permaloso, istintivo, deciso, determinato, Vaffanculo. Dottore, qual è la diagnosi (ride)?
Io penso che tu sia molto consapevole delle tue caratteristiche e le stai canalizzando bene nelle musica…no?
Se mi chiedi…stai bene? A me pare di no. Sono sempre più nervoso, incasinato. Ti svegli la notte perché devi fare qualcosa, poi la fai e non dormi uguale. Io non sto bene.
Il mondo della musica è una lotta; è tutto precario; la carriera dei Kutso deve avanzare. Dobbiamo almeno arrivare allo stipendio di un operaio.
Io ho una megalomania e una strafottenza che non mi fanno soccombere all’ansia: faccio quello che voglio o almeno tento di farlo; ma se ciò è funzionale all’arte non sempre lo è alla vita.
Per la vita serve star bene non scrivere canzoni. Sono scelte.
Vedo in quest’ottica anche l’eventuale decisione di mettere su famiglia; non credo alla coesistenza di due passioni totalizzanti, non si può essere un buon padre e una rockstar allo stesso tempo, perché la musica, quando non è un semplice hobby, è importante quanto un figlio. Vivere con un genitore, che anche amandoti immensamente, ti assegna lo stesso valore che hanno le sue canzoni e quindi se stesso genera mancanze e scompensi importanti.
I Gazebo Penguins sono un gruppo indipendente di Correggio, ho incontrato il cantante e principale autore dei testi per fargli qualche domanda a sfondo psico…un grazie a MVM Concerti e Alessio Vitali di Live Your Hands che hanno permesso questo incontro prima del concerto della band presso il Glitter di Viterbo.
In diversi brani parli di relazioni… vorrei sapere come i sentimenti verso gli altri influenzano quello che scrivi?
Nei testi di Raudo (l’ultimo album) c’è una parte di autobiografia e una parte di fantasia, sono mischiate, uno stesso ricordo potrebbe cominciare dal vero e finire nell’inventato, o viceversa: per me è bello anche inventarsi una storia, qualcosa che potrebbe succedere, che potrebbe riguardare qualcun altro anche se non ha riguardato direttamente me. Certo che si parla di relazioni, soprattutto del mio vissuto: quando ho scritto l’ultimo album era il periodo in cui avevo terminato il mio vecchio lavoro e stavo pensando di dedicarmi completamente alla musica, stavo molto a casa. La relazione con questo luogo ha fatto sì che, probabilmente non a livello conscio, Raudo diventasse un disco con tantissimi tratti di “domesticità”: la casa che perdi, la casa che troverai, il trasloco, i mobili, la quotidianità.
Non c’era un fuori: ero concentrato a scrivere ed ho scritto di quello che stavo vivendo in quel momento.
Come vivi la tua posizione di musicista? Riesci a vivere di musica? Questo come ti fa sentire?
Da quando è uscito l’ultimo disco le cose sono cambiate. Prima lavoravo in una compagnia teatrale, poi, a causa della crisi economica dove gli enti pubblici hanno tagliato i fondi, trarne da che vivere è diventato più difficile. Era il momento giusto per fare un disco e cercare di suonare tanto live.
Non campiamo con la vendita dei dischi, ma perché stiamo sempre in tour, questa di stasera dovrebbe essere la data 124 in 15 mesi. Quando suoni tutte le settimane puoi pensare di viverci. Poi sono uno che si accontenta: vivo in montagna, autoproduco molto, ho un furgone per le band, sto trovando date ad altri gruppi; il mio obiettivo non è guadagnare un sacco di soldi, perché quello che sto facendo era quello che sognavo di fare quando avevo 20 anni e che si è realizzato con 12 anni di ritardo… ma quando un sogno si realizza, non dici sono troppo vecchio.
Quali sono le tue aspettative dalla vita da musicista?
Adesso, dopo questo lunghissimo tour, vogliamo cambiare musica. Siamo arrivati ad un punto in cui quando la serata è più difficile e il pubblico interagisce di meno arriviamo alla fine del concerto più stanchi. Quando la gente ti manda un feedback importante, anche quando suoni la stessa canzone per la 200esima volta, non c’è problema. Nonostante dobbiamo fare ancora dei concerti bellissimi, la voglia è quella di cambiare musica, di cambiare suono. Anche nei testi, cantare qualcosa di diverso, meno collettivo forse, boh.
Cosa ti deprime della vita da musicista?
Fai una cosa che sognavi a 20 anni e, in alcuni momenti, ti arriva a stancare.
Oppure ritrovarti a doverlo fare perché è il tuo lavoro, e magari quella sera del concerto vorresti stare a casa. Sono poche le volte che senti questa sensazione, ma quando la provi, poi te la ricordi al pari delle serate bellissime in cui era tutto pieno e c’è stato un bordello incredibile.
Quali bisogni personali esprimi con la tua musica?
La sensazione principale se mi guardo suonare è il godimento. È un’attività con un altissimo tasso di felicità per me. Semplicemente suonare, far uscire suoni che possono diventare musica da delle casse, musica che può diventare una canzone, canzone che può diventare il tassello di un disco.
E poi, fondamentalmente, a me piace raccontare. Scrivere testi è la cosa più difficile di un disco, è la cosa che mi prende più tempo, quindi diventa una sfida che mi stimola; a volte mi viene questa voglia di narrare, magari di qualcosa che non è stato mai trattato in altre canzoni, come ad esempio un trasloco. Lo stimolo dell’inedito.
Perché i vostri fan seguono i Gazebo Penguins, che emozione pensi di dare a loro?
Penso che la musica sia l’aspetto principale, un certo tipo di suono, di energia, poi può pure capitare che in certe parole si sentano descritti. Ad esempio la canzone “Riposa in piedi” che parla della perdita di mio fratello (morto in un incidente) ha suscitato molta empatia in tante persone, anche se magari non hanno passato la stessa esperienza, ci si ritrovano.
Nella canzone “difetto”, una persona ti dice “cresci un po’”: in cosa sei ancora adolescente? In cosa ti senti adulto?
Adolescente per la voglia di continuare a suonare, su un palco e con un sacco di volume.
Adulto quando torno da una data e vado a prendere mia figlia a scuola, lì mi ritrovo papà.
Cerco di integrare questi due aspetti: musica e famiglia, senza che diventino due mondi separati.
Narcisismo sul palco: siete in due a cantare…come gestite la leadership? C’è democrazia o gerarchia?
Abbiamo tutti dei ruoli diversi: io seguo l’aspetto verbale, il bassista il suono; il batterista si occupa di organizzazione e web.
Cosa vuoi per la tua band nel futuro? C’è qualcosa che gli manca? Come pensi di raggiungere questi obiettivi?
Sicuramente novità rispetto a quello che abbiamo fatto finora. Cambiare. Per noi l’importante è fare canzoni che durino il più possibile, siamo una band che vuole suonare tanto e che fa musica per stare in tour, vogliamo produrre tracce che abbiano il loro spazio di novità anche una volta finite di registrare, così quando le porterai in concerto avranno ancora la possibilità di evolversi.
“Ogni scelta è perdita”: nella vostra carriera di musicisti avete fatto delle scelte…cosa avete perso? cosa avete acquisito/trovato?
Abbiamo perso la lingua inglese, le prime cose che facevano erano in inglese: allora ci potevano concentrare prepotentemente sul suono e sulla melodia; cantando in italiano devi trovare un equilibrio con altri aspetti, come dicevamo prima, comporre testi in italiano è veramente una sfida.
Abbiamo acquisito, cantando nella nostra lingua, una maggiore comprensione da parte del pubblico, una capacità di abbraccio più grande, le persone che ascoltano ci si ritrovano.
Tra le cose che abbiamo mantenuto, sicuramente le radici nei posti che ci hanno visto partire, per ogni disco nuovo il primo concerto lo facciamo al nostro paese con e per i nostri amici, quelli che, anche quando erano in 10 davanti a un palco, pensavano che con la musica avessimo qualcosa da dire.
La rabbia: nelle canzoni mi sembrate abbastanza incazzati: con chi siete incazzati?
In realtà ci piace suonare incazzati perché se suoniamo più lenti ci annoiamo, ci viene più naturale fare tracce tirate…almeno fino adesso, magari nei nuovi pezzi ci saranno solo i violini…
Il tattoo svolge diverse funzioni: è una carta d’identità dell’individuo, segnala l’appartenenza ad una tribù o ad un gruppo, ma è anche un simbolo di un rito di passaggio (ad esempio, all’età adulta).
Cosa dice la scienza
Secondo l’ipotesi della “human canvas”, il tatuaggio rappresenta un’estensione del proprio fenotipo che intende segnalare significati simbolici, che sono marker d’identità individuale o identificazione con un gruppo; proprio l’identificazione con un gruppo specifico, insieme alla dimostrazione di forza nel vincere il dolore e lo stigma sociale, erano le principali motivazioni dei tatuaggi fatti prima della post-contemporaneità.
Secondo L’ipotesi “upping the ante”, a causa di fattori tipici della modernità, come l’aumento di popolazione e il miglioramento del sistema sanitario, le persone sviluppano la loro identità attraverso gli ornamenti: ci facciamo i tatuaggi per apparire unici, attraenti e per ottenere uno status superiore rispetto ad un gruppo.
Cosa dicono i tatuati
Recentemente è stato chiesto ad un campione statisticamente significativo il motivo per cui hanno messo inchiostro sulla propria pelle; le risposte sono state classificate in queste categorie:
– Essere speciali e UNICI
– Enfatizzare la propria identità
– Avere una NUOVA esperienza, superare un limite
– Come simbolo di protesta o ribellione verso qualcosa
– Appartenenza ad un gruppo
– Ricordare una fase di vita (un evento, una persona)
– Motivi sessuali (tra cui feticismo, sadomaso, esibizionismo)
– Motivi religiosi o spirituali
N.B.: le immagini sono foto di opere del Maestro Lippo, che mi ha gentilmente concesso l’opportunità di usarle!
Il Califfo trascurava ormai da mesi una tosse fastidiosa.
Recatosi finalmente dal medico, la diagnosi fu implacabile: cordite cronica; praticamente una delle due corde vocali si era talmente irrigidita e la vibrazione non sarebbe più stata quella di prima dell’infiammazione.
La voce di Califano non sarebbe più tornata quella che lui conosceva: era diventata più rauca e profonda.
Da quel momento, la sorpresa: quel tono così basso divenne il tratto DISTINTIVO del Califfo.
Come afferma il compianto Franco nel suo libro “Senza Manette”
Mi sono sempre considerato uno sfortunato vincente: devo tutto alla cordite cronica.
Cosa ci insegna questa vicenda?
Che i vincenti, coloro che non si fanno buttare giù dalla sfortuna e non cadono nel PESSIMISMO totale, riescono a TRASFORMARE qualcosa che è un difetto, un handicap in un TRATTO DISTINTIVO.
Condannati sin dal principio Ci siamo incontrati con un bacio di addio, mi sono rotto il polso Era tutto iniziato, non avevo scelta Hai detto che non ti importava, perché l’amore è difficile da trovare
Così inizia questo capolavoro di Sergio Pizzorno, chitarrista e principale autore dei Kasabian.
Un testo che parla di un amore tormentato, profonda passione ma fine predeterminata…perché molte storie sono così?
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